Possiamo avere religioni diverse, lingue diverse, una pelle di colore diverso, ma apparteniamo tutti alla stessa razza umana.
Kofi Annan
Essere multiculturali è sia un dono che una sfida, soprattutto quando si vaga costantemente tra identità diverse e si cerca di trovare il proprio posto. Non ho davvero compreso la bellezza del mio background multiculturale fino a quando non l’ho abbracciato. Da quel momento, il mio modo di relazionarmi con le persone in ambienti diversi e di prendermene cura, soprattutto sul lavoro, è mutato profondamente.
Sono nata a Budapest da genitori cinesi, anche se mio padre è nato in Belgio. Fin dall’inizio, la mia vita è stata contraddistinta da un vero e proprio mix di culture. Ho frequentato le scuole ungheresi, ho trascorso svariati periodi con la mia famiglia in Belgio e ho viaggiato in Cina per vedere i parenti. Mi è capitato spesso di sentirmi fuori posto, indipendentemente dal luogo in cui mi trovassi. In Ungheria non assomigliavo agli altri bambini, mentre in Cina non parlavo né mi comportavo come i miei cugini.
Crescendo, in me ha preso forma il desiderio di poter appartenere a un luogo senza dover dare spiegazioni. Tuttavia, con il passare degli anni, ho iniziato a vedere il mio mix culturale come un punto di forza. Il trasferimento negli Stati Uniti per i miei studi è stato un punto di svolta importante. All’università, circondata come ero da persone provenienti da tutto il mondo, ho finalmente capito che il mio background non era qualcosa che mi distingueva, ma che mi aiutava a entrare in contatto con gli altri.
Frequentare lo stesso college di Kofi Annan, un uomo che ha dedicato la sua vita alla pace e all’inclusione, ha avuto una profonda influenza su di me. Le sue parole, «Possiamo avere religioni diverse, lingue diverse, un colore della pelle diverso, ma apparteniamo tutti alla stessa razza umana», sono diventate un principio guida che mi ha aiutato ad affrontare il lavoro e a relazionarmi con gli altri. Ho imparato che la vera inclusività inizia con il riconoscimento della nostra umanità condivisa e delle nostre storie uniche.
Un episodio cruciale nel mio percorso di comprensione dell’inclusione è avvenuto recentemente in Italia, durante una conversazione con un collega. Stavamo facendo un incontro di allineamento per un discorso che avrebbe tenuto di lì a poco. Ammiravo molto questo collega, in quanto l’anno prima avevamo lavorato insieme a un progetto. Mentre discutevamo del programma, mi sono ritrovata per l’ennesima volta a illustrare il mio background: ero di origine asiatica, parlavo con accento americano ed ero cresciuta in Ungheria. Era il tipo di spiegazione che ero abituata a dare per chiarire agli altri chi fossi. Ma mentre parlavo, mi sono resa conto di una cosa che mi ha completamente bloccata: questo collega era cieco. Non aveva mai visto come ero fatta, non aveva mai avuto preconcetti sulla mia etnia. Per lui ero semplicemente una voce, una donna che parlava un inglese fluente.
In quel momento, mi sono sentita “vista” come *me*, senza bisogno di spiegare le mie complessità culturali. Non gli importava se sembravo cinese o ungherese, non si stava chiedendo perché il mio accento non corrispondesse al mio aspetto. La sua prospettiva mi ha fatto capire quanto mi fossi rassegnata a dare spiegazioni in merito alla mia identità, quasi come un meccanismo di difesa. Ma con lui questa spiegazione era del tutto irrilevante. È stata una scelta che ho fatto per condividere tutto ciò, non qualcosa di cui aveva bisogno per capirmi. Questa interazione ha lasciato un segno che mi ha portata a riflettere su quanto potremmo essere meno giudicanti se ci avvicinassimo al mondo con la stessa apertura, liberi da supposizioni basate sull’apparenza.
Dopo aver completato gli studi, ho trovato lavoro a New York. Per la prima volta, ho provato un profondo senso di appartenenza. Era una città piena di persone come me, persone la cui identità non era affatto catalogabile. Durante una sola corsa in metropolitana potevo sentire persone parlare cinque lingue diverse. Ho avuto l’occasione di assaggiare cibi provenienti da paesi che non avevo mai visitato e ho incontrato persone che passavano da una lingua all’altra in una sola frase. Questo è stato l’esatto momento in cui ho compreso appieno la ricchezza del multiculturalismo.
Sul posto di lavoro, ho capito che prendersi cura degli altri in un ambiente diverso ha un significato che va ben al di là della semplice tolleranza, poiché richiede curiosità, empatia e impegno attivo. Ho scoperto che il mio background multiculturale mi permette di colmare le lacune culturali e di entrare in contatto con colleghi provenienti da varie parti del mondo. Tuttavia, in questo contesto, prendersi cura significa non solo celebrare la diversità, ma anche promuovere un contesto in cui ognuno si senta visto e valorizzato per quello che è e non per l’aspetto e la provenienza.
Lavorando in ambienti globali, ho imparato che l’inclusione va oltre le politiche e le parole; si tratta, infatti, di creare uno spazio in cui le persone possono sentirsi libere di mettere se stesse nella loro totalità. Spesso, tutto ciò assume un significato preciso, vale a dire essere vulnerabili quanto basta per porre domande, anche se all’apparenza possano sembrare scomode, ed essere intenzionati a conoscere le esperienze di qualcun altro senza dare per scontate le proprie idee. L’esperienza con il mio collega non vedente mi ha fatto capire che per vedere qualcuno per quello che è veramente, a volte è necessario chiudere gli occhi sui giudizi che ci sono stati impartiti.