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Copyright Cyril Mouty

Questo punto morto della post-modernità forse richiede di affidarsi a comunità provvisorie per sfuggire ai pericoli dell’autismo corale o a nostalgie regressive di comunità basate su ripiegamenti localistici. Per comunità provvisorie intendo la costruzione di luoghi, reali più che virtuali, in cui le persone si incontrano esponendosi agli altri generosamente e cercando di fare delle cose insieme agli altri, azioni che possono essere di svago o di contestazione, di riflessione intellettuale o di produzione artistica, ma sempre con l’intenzione di tenere vivo un intreccio di umori e di gesti in cui sia riconoscibile allo stesso tempo la matrice individuale e la tensione corale.

 

Franco Arminio

Nel mio mestiere di regista ogni volta che comincio un nuovo progetto teatrale mi sento sempre all’alba di qualcosa che so sarà profondamente trasformativo per me. Non solo e non tanto perché ogni istante della creazione, oltre a contribuire a realizzare il mio punto di vista sul soggetto di indagine, sia esso un testo o una tematica, diventa un potentissimo motore di conoscenza di ciò che mi circonda (come dico sempre ai miei allievi registi: «Creare uno spettacolo è la maniera migliore di conoscere il mondo») ma anche e soprattutto perché mi immergo nella comunità “provvisoria” che si costruisce intorno a quel progetto.

Come nella bella definizione di Franco Arminio, lavoro per uscire da un certo “autismo corale” e investire su un IO che sappia mettersi in relazione con gli altri, e che sappia stare nel flusso del dialogo e del fare comune senza irrigidirsi nel “chi sono” o “cosa voglio” io, ma piuttosto si connetta a una più generale “tensione del fare comune”. 

Essere comunità è infatti soprattutto essere e praticare la relazione, allontanandoci dall’autoreferenzialità e dall’imposizione o affermazione di modelli personali, per avvicinarci alla condivisione e accettazione di differenti modalità e stili comunicativi. Mi piace immaginare che siamo come le fibre del tessuto connettivo che costruiscono il supporto strutturale agli altri tessuti del nostro corpo: non sono rigide e, pur mantenendo ciascuna la propria specificità, cooperano per mantenerci in salute, specialmente in situazioni critiche. Ognuno di noi agisce in maniera indipendente, ma per mantenere in salute le diverse comunità in cui ci muoviamo, dobbiamo allenare la nostra componente relazionale e concepirci come cooperanti, collanti, sinergici e flessibili. Fiducia nell’altro, flessibilità, rispetto, cura e accoglienza sono valori basilari e imprescindibili perché le comunità crescano, si sviluppino e contribuiscano al benessere del gruppo, tanto quanto del singolo. 

Il mondo un po’ folle e particolare del teatro che vivo e frequento dai miei sedici anni è un ottimo banco di prova per sperimentare forme di relazione e di connessione. In quanto regista – e quindi “team leader” della comunità che si costruisce intorno al progetto artistico – è sempre mia cura creare un ambiente fertile in cui ciascuno possa “fiorire”. 

Essere fertile e favorire l’altrui essere fertile significa, almeno per me, creare condizioni ottimali perché i nutrimenti presenti nei terreni (in questo caso gli attori) possano dare luogo ad azioni/germogliazioni autonome, ma anche incoraggiare azioni di crescita, trasformazione e cambiamento perché quegli stessi terreni possano accogliere nuove piante o nuove specie. I contadini sanno da secoli che per rigenerare un terreno devono operare diverse azioni: rotazione delle colture, rivoltamento del terreno per far emergere strati più profondi e più ricchi di sostanze, bruciatura delle “stoppie” (cioè ciò che rimane dopo la mietitura) in caso di coltivazione a grano. Sono tutte azioni che implicano un approccio al terreno da un lato di rispetto della sua costituzione e dall’altro di forte azione trasformativa, anche rude e profonda. Se infatti ruotiamo le colture diamo modo al terreno, attraverso la novità, di attingere a sostanze fino a ora non utilizzate, risvegliando la fertilità e scrollandosi di dosso la pesantezza della vecchia routine in favore di nuove gemme. Allo stesso modo agisce il rivoltare il terreno per mettere in luce nuove sostanze: la superficie è arida, consumata dalla stasi, e il terreno appare spento; la decisione di “rivoltarsi” (mettersi in discussione, accettare uno sguardo rinnovato, affondare le mani in altre risorse, vedersi in maniera nuova) imprime una spinta che genera altre spinte fino, nuovamente, a compiere l’atto trasformativo. Nel caso della bruciatura delle stoppie, essa si rende necessaria laddove il terreno debba essere coltivato esclusivamente a grano e non consenta rotazione: eliminare il vecchio disinfesta il terreno, lo prepara alla nuova semina e fornisce un supporto fertile. Di nuovo un’azione rude ma che consente di guardare al “vecchio” come risorsa che, pur se destinata a consumarsi, ha una azione profonda sul proprio sistema. 

Le comunità possono essere molto fragili se si sceglie di non curarsene: senza relazione, connessione, condivisione, flessibilità, leadership fertile e “fertilizzante” diventano luoghi solo nominali che a poco a poco sfioriscono. Solo se si sceglie di esserne parte attiva e di accettarne la complessità e le responsabilità, esse si trasformano in posti dove il benessere del singolo e del gruppo viene considerato e dove, allo stesso tempo, per tornare a Franco Arminio, sono riconoscibili la matrice individuale e la tensione corale.

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