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Autori

  • Fabrizio Maria Pini
Copyright Cyril Mouty

Did you ever expect a corporation to have a conscience, when it has no soul to be damned, and no body to be kicked?

Edward Thurlow

La frase del barone di Thurlow (1731-1806), Lord Chancelor del Regno Unito, che si chiedeva come si potessero considerare le aziende organismi etici quando hanno «no soul to damn, no body to kick», esprime la frustrazione di chi deve affrontare il tema della responsabilità d’impresa. Mai come in questo periodo c’è stata, da parte degli organi regolatori, dei cittadini e dei movimenti di opinione, una pressione sulle aziende perché adottino condotte rispondenti alle crescenti e terrificanti problematiche ambientali e sociali che il mondo intero si trova ad affrontare. Ingenti sono stati gli sforzi e le risorse profuse in questo sforzo da parte delle imprese; al contempo è sempre crescente la percezione che tali sforzi siano una “sovrastruttura”, un costo accessorio al modo di fare business piuttosto che un vero fattore di cambiamento.

Crescente è la disaffezione verso il mondo delle imprese con fughe di dipendenti e abissi oscuri nella motivazione delle persone. Sono all’ordine del giorno scandali terribili che riguardano le marche più blasonate, la cui reputazione pareva inscalfibile. L’orrida pratica del terzismo nella moda, il mancato riconoscimento delle sigle sindacali nelle fabbriche, il più sfacciato greenwashing sovrastano le pur meritorie iniziative per migliorare lo stato delle cose. Riprendendo l’assillo di Lord Thurlow viene dunque da chiedersi perché le aziende debbano essere considerate strutture responsabili, al di là della capacità di generare ricchezza.

Ci viene in soccorso, in questo contesto, il prezioso lavoro di Carroll, il quale negli anni novanta pose le basi delle teorie stakeholderiste sul ruolo dell’impresa. Le imprese sono chiamate a negoziare la loro capacità di generare ricchezza con gli altri attori presenti all’interno di un dato ecosistema caratterizzato da dinamiche politiche, sociali, demografiche, ambientali e normative. Tali dinamiche sono in continua evoluzione, richiedono all’azienda sforzi successivi di adattamento alle diverse istanze che emergono dai diversi attori dell’ecosistema.

Le società pluraliste sono quelle che pongono le maggiori sfide e richiedono maggiori sforzi di adattamento alle imprese. Nella definizione di Carroll, si intende per società pluralista quella in cui ci sia una distribuzione del potere tra i diversi corpi e organizzazioni. Il potere, quindi, è decentralizzato e in mano ad attori diversi e con diverse finalità e culture. In questo contesto, la forza economica dell’impresa è bilanciata da altri poteri che richiedono la soddisfazione delle proprie istanze come premessa per permettere il funzionamento dell’impresa stessa. L’innovazione dei modelli di business delle aziende è dunque il frutto di una progressiva comprensione e accettazione delle istanze di altri corpi sociali, all’interno di un continuo processo di negoziazione.

Negli stessi anni Ralph Dahrendorf, nel suo libro “Quadrare il cerchio”, poneva in luce come l’equilibrio tra benessere economico, coesione sociale e libertà politica fosse la chiave per l’armonioso sviluppo delle società, ancor prima che dei sistemi economici.

È interessante notare come, tra i fattori destabilizzazione di questo equilibrio virtuoso, Dahrendorf ponesse l’adozione di politiche eccessivamente neoliberiste e le politiche di globalizzazione. Sempre in quegli anni Michel Albert segnalava le diversità tra il capitalismo “renano” e quello nordamericano proprio in termini di capacità dei due sistemi di garantire una coesione sociale e uno sviluppo armonico sociale e di mercato.

Senza pluralismo, senza potere diffuso all’interno delle società e, su scala più ridotta, delle comunità l’attribuzione di una responsabilità sociale e ambientale alle imprese risulta, quindi, affievolita con tendenze sempre più forti all’elusione e alla resistenza alle pressioni sociali. I business si prendono, dunque, cura? Certo, ci sono casi virtuosi che, solitamente mostrano la necessità per l’azienda di contemperare interessi di gruppi di pressione con un significativo potere (per produrre beni che richiedono grande artigianalità sarà necessario che l’azienda si faccia carico di molte delle istanze di una manodopera qualificata e difficilmente sostituibile; per realizzare alimenti ad alta specificità locale appare naturale oltre che necessario per l’azienda tutelare il territorio in cui opera) ma, in una prospettiva più ampia, con la nascita di aziende globali, più potenti dei singoli stati che le ospitano, la riduzione del pluralismo grazie al decentramento di grandi parti della produzione in paesi più o meno autoritari e, non ultimo, con la progressiva digitalizzazione che tende a svuotare il lavoro di una sua propria forza negoziale pare venir meno la necessità strategica e centrale delle imprese di prendersi cura dei contesti nei quali sono chiamate a operare. Fa un certo effetto sentire un ex presidente degli Stati Uniti e uno degli uomini più ricchi del mondo scambiarsi complimenti su quante persone quest’ultimo ha lasciato a casa e sul disprezzo per le organizzazioni sindacali: ma possiamo stare sereni, negli uffici avrà certamente piantato qualche albero e adottato una politica zero paper.

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