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Nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto

Copyright Cyril Mouty

«Il flusso del fiume è incessante, e le sue acque non sono mai le stesse.»

Kamo no Chōmei 

L’estetica tradizionale giapponese del Wabi-Sabi offre una lente attraverso cui possiamo guardare la vita e le sue imperfezioni. Radicato nel Buddhismo Zen, il WabiSabi enfatizza l’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione, una bellezza che è “perfetta” proprio grazie ai suoi difetti. Questa filosofia, modellata dalla natura e dalle forze che la governano, ci invita a riconsiderare la nostra ossessione sociale per la perfezione. 

Sentiamo spesso dire che è l’imperfezione a rendere qualcosa perfetto. Ma se crediamo davvero in questo, perché allora tanti si affannano per un mondo di prevedibilità senza difetti? Non è una domanda retorica. Invita a una riflessione profonda, soprattutto in una società sempre più guidata dalla ricerca di un ideale irraggiungibile. 

Come ricercatrice qualitativa, ho imparato che la vita è piena di sorprese, spesso rivelate in dettagli apparentemente insignificanti. Eppure, i sistemi sociali più ampi ci spingono sempre più lontano dall’abbracciare questa imprevedibilità. La preferenza per l’analisi quantitativa rispetto agli approcci qualitativi riflette una visione del mondo radicata negli approcci cartesiani e newtoniani, che vedono l’universo come una grande macchina governata da leggi prevedibili e costanti. Questi approcci cercano di stabilire una conoscenza che sia indipendente dall’osservatore, presupponendo che le verità esistano separate da chi le osserva. Questa ambizione ha portato a metodi scientifici che privilegiano la quantificazione e la replicabilità. In questo contesto, i numeri sono visti come più “rigorosi”, riducendo le persone a semplici dati, e cancellando gli outliers, le eccezioni. Ma questa ricerca di una pulizia statistica ci aiuta davvero a comprendere la ricchezza della vita umana? Io direi di no. 

Nella nostra ricerca della perfezione, gli outliers – le anomalie che sfidano la norma – vengono scartati. Riduciamo le complessità e le sfumature dell’esperienza umana e della variabilità culturale a qualcosa di binario, semplice come uno 0 o un 1. Con tutto il rispetto per l’eleganza dei dati, non posso sottoscrivere questo approccio. La cultura, con tutta la sua confusione e imperfezione, governa la nostra società in modo molto più profondo di quanto qualsiasi algoritmo possa fare. 

Il vero motore del cambiamento 

Per decenni, secoli o millenni, la cultura è stata la mano invisibile che guida il flusso dell’esistenza umana. Dalle strutture familiari e le amicizie, alle relazioni aziendali e dinamiche politiche, la cultura plasma il nostro modo di vivere, innovare e adattarci. Ogni cosa, che sia progresso, declino, crisi o rinnovamento, è guidata dai valori, dalle credenze e dai significati condivisi radicati nei contesti culturali. 

E no, la cultura non può essere codificata in un sistema binario. Possiamo cercare di catturare alcuni suoi elementi (suoni, colori, testi e lingue) che possono essere codificati.

Ma la cultura è più dei suoi componenti misurabili. Simboli, significati, emozioni e le motivazioni stesse dietro le scelte culturali sono spesso taciti e intangibili, e quindi al di là della portata di qualsiasi algoritmo. 

Gli antropologi potrebbero concordare facilmente con questa visione, comprendendo la cultura come il vero motore del cambiamento. Tuttavia, in un mondo in gran parte governato da interessi aziendali, questa prospettiva viene spesso trascurata. Ci viene detto che l’innovazione è il motore del progresso. Gli avanzamenti tecnologici promettono soluzioni future ai problemi del mondo. Prendiamo, per esempio, la lotta globale contro il cambiamento climatico, una crisi che richiede innovazioni per un futuro sostenibile. Ma questa spinta all’innovazione può, a volte, apparire idealistica, persino perfezionistica. 

La trappola dell’idealismo 

Come la storia ci ha mostrato, l’idealismo può portare alla paralisi. Quando le società o le istituzioni mirano alla perfezione, spesso faticano a progredire. Piuttosto che promuovere la crescita, l’idealismo può contribuire a una cultura della decadenza, dove l’energia viene diretta non verso il vero apprendimento o sviluppo, ma verso il mantenimento delle apparenze. È una storia fin troppo familiare: governi e aziende investono immense risorse in iniziative che promettono cambiamenti, ma la situazione peggiora. Perché? Perché la complessità del problema viene spesso troppo semplificata. La complessità dei sistemi culturali sfida la facile quantificazione o risoluzione. Non possiamo semplicemente delegare le soluzioni ai dati. Quando ci affidiamo solo ai numeri, dimentichiamo che i dati stessi sono costruiti su generalizzazioni che trascurano le sfumature. Invece di ridurre i problemi a semplici statistiche, dobbiamo abbracciare la naturale complessità della vita, le sue imperfezioni, la sua imprevedibilità, le sue sorprese.

Abbracciare l’imperfezione come soluzione 

L’invito qui non è quello di rinunciare alla tecnologia o all’innovazione, ma di riconoscere che la cultura fornisce il significato e il contesto per il cambiamento. E se accettassimo l’imperfezione, riconoscendo che il disordine della vita umana contiene la chiave per una “bellezza impeccabile”, non nella sterile ricerca della precisione, ma nella ricchezza della diversità e dell’esperienza? 

Prendiamo per esempio il cambiamento organizzativo. Fusioni, acquisizioni, avanzamenti tecnologici o pressioni ambientali possono creare la necessità di cambiamento, ma è la cultura all’interno dell’organizzazione a determinare se quel cambiamento venga accolto o respinto. L’innovazione apre nuove possibilità, ma è la cultura a dare un significato a tali possibilità, decidendo come vengono percepite, valutate e integrate.

La tecnologia e la cultura non operano da sole. Ogni avanzamento tecnologico è plasmato dai bisogni culturali, dai valori e dalle priorità del tempo. In effetti, i problemi che le società scelgono di affrontare con l’innovazione sono prodotti di contesti culturali. Quando le innovazioni falliscono o incontrano resistenza, spesso è perché non sono in sintonia con il quadro culturale sottostante.

Cultura come quadro per il cambiamento 

La cultura è il quadro che definisce come interpretiamo il cambiamento e agiamo su di esso. È attraverso la cultura che le società sviluppano la propria visione del mondo e i valori, che a loro volta plasmano le loro risposte alle sfide e alle opportunità. Per questo motivo, la cultura, e non la tecnologia, è il vero e più persistente motore del cambiamento. I sistemi di valori all’interno di qualsiasi contesto culturale, siano essi codificati o taciti, determinano come vengono adottate (o respinte) le tecnologie e le innovazioni. 

Invece di combattere l’inerzia dei complessi sistemi culturali, dovremmo imparare a lavorare con essi. La cultura, dopotutto, fornisce il significato dietro il cambiamento. Dà la direzione verso cui ci muoviamo e stabilisce il ritmo con cui il progresso diventa possibile. Accogliendo la diversità e l’imperfezione insite nelle nostre culture, possiamo affrontare il futuro in modi più significativi. 

La filosofia del Wabi-Sabi, nata in Giappone, in un ambiente instabile e imprevedibile, come terremoti e tsunami, ha insegnato ai giapponesi a vedere nella resilienza e nella forza i tratti distintivi della loro identità culturale. L’accettazione dell’impermanenza e dell’imperfezione espressa dai principi guida del Wabi-Sabi, secondo cui «nulla dura, nulla è finito e nulla è perfetto», non è una rassegnazione pessimistica al caos, ma piuttosto una celebrazione della fragilità della vita e un riconoscimento della bellezza che si trova in essa. Questo modo di vedere il mondo, nato dall’incertezza ambientale, offre una lezione profonda: è proprio accogliendo l’incompleto e l’imperfetto che emerge la vera forza. Mentre la ricerca ossessiva di perfezione e controllo può portare a frustrazione e stagnazione, il riconoscere l’imperfezione come parte intrinseca della vita permette l’adattabilità e la crescita. La saggezza del Wabi-Sabi ci ricorda che la vera trasformazione non nasce dalla precisione impeccabile, ma dall’accettazione del cambiamento e dal coraggio di andare avanti in mezzo all’incertezza. 

Così come il paesaggio naturale del Giappone ha modellato la sua filosofia culturale, anche le nostre culture – imperfette, in evoluzione e dinamiche – plasmano il nostro modo di rispondere alle sfide del mondo. La tecnologia può offrirci strumenti per il cambiamento, ma è la cultura che fornisce la resilienza, la forza e il significato necessari per navigare tali cambiamenti. In questa luce, l’etica del Wabi-Sabi diventa non una costrizione, ma una forza liberatrice, che ci insegna a trovare la bellezza in ciò che è effimero, il senso in ciò che è incompiuto e la forza in ciò che è imperfetto.  

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