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Copyright Cyril Mouty

Io non ho bisogno di denaro. Ho bisogno di sentimenti, di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri, di rose dette presenze, di sogni che abitino gli alberi, di canzoni che facciano danzare le statue, di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti. Ho bisogno di poesia, questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

 

Alda Merini

Sono una psicologa, psicoterapeuta, figlia di psicoanalisti, per cui sono cresciuta convinta che la mia “mente che sente” fosse da sempre allenata, consapevole e anche piuttosto risoluta. Con il tempo mi sono accorta, forse diventando adulta, che in realtà la mia “mente che pensa” è molto più presente di quello che immaginassi. 

Con il mio lavoro, ho avuto e ho tuttora la possibilità di osservare da un punto di vista privilegiato e sempre diverso la complessità delle relazioni umane. Mi sento sempre come andassi a teatro e potessi vedere lo stesso spettacolo ogni volta da una poltrona, da un palco diverso. Ma c’è qualcosa che non cambia, resta immutato a ogni angolo d’osservazione ed è il potere e la forza delle emozioni che sperimentiamo (il più delle volte senza esserne consapevoli) nel determinare l’esito di ogni scambio relazionale. 

Eppure viviamo in un’epoca definita da Goleman di alfabetizzazione emotiva. Come è quindi possibile non prenderci cura del nostro vocabolario emotivo, della relazione con noi stessi e delle relazioni che costruiamo con gli altri? 

Siamo fatti di emozioni, eppure non sappiamo dargli un nome. Prima di tutto, di cosa parliamo quando parliamo di emozione? Il vocabolario ci fornisce questa definizione: 

«Stato psicologico e fisico di risposta dell’essere umano a uno stimolo interno o esterno.» 

La parola emozione deriva anche dal latino e/moveo, vale a dire muoversi da qualcosa o, meglio, essere mossi, spostati da qualcosa. In effetti è ciò che capita quando, nel normale andamento della nostra giornata, qualcosa o qualcuno provoca in noi un movimento – positivo o negativo che sia – nella nostra percezione, cui noi diamo il nome di un’emozione. 

Se per un attimo ci astraiamo dal giudizio legato a ciò che proviamo, in particolare per quelle emozioni che noi percepiamo come sgradevoli, addirittura spaventose o profondamente disturbanti, e guardiamo alla fenomenologia di ciò che ci accade, vediamo che dato uno stimolo, il primo ad agire sarà il nostro corpo, attivato in maniera più o meno evidente a livello muscolare, cardiaco e nervoso. Senza scomodare analisi troppo dettagliate di come reagisce il nostro cervello possiamo accennare che, data una situazione che ci “sposta” dalla nostra normale condizione (detta in termini più scientifici omeostasi), vivremo prima una sollecitazione della parte limbica del nostro cervello (quella più antica, quella sviluppatasi ben prima dell’homo sapiens) che attiverà una serie di sostanze chimiche per renderci adatti a fronteggiare questa situazione, poi avremo una risposta corporea, e infine una razionalizzazione dell’accaduto. Il tutto in una frazione di secondo. 

Per fare un esempio, possiamo pensare a quello che ci accade quando qualcosa di improvviso ci spaventa e richiede una nostra immediata azione: in una frazione di secondo la parte limbica invia un segnale alle nostre ghiandole surrenali affinché venga prodotta adrenalina, la quale agisce sui nostri muscoli rendendoli più pronti ad agire e a fare fronte alla situazione che ha innescato la nostra paura. Solo in un secondo momento ci diremo che abbiamo agito perché impauriti. Sarebbe infatti un meccanismo ben poco intelligente se perdessimo tempo a dirci che abbiamo paura e poi passassimo all’azione: ciò che ci ha spaventato avrebbe molta più probabilità di agire negativamente su di noi! 

Le emozioni hanno uno scopo, hanno una funzione, sono lì a cercare di farsi vedere non per caso ma per indicarci una strada, per avvisarci di qualche cosa. L’intelligenza emotiva va di pari passo con quella cognitiva e una sapiente gestione delle proprie emozioni ci rende esseri relazionali migliori, nonché persone più flessibili e organiche. 

Chiediamocelo: a cosa serve la paura? O la rabbia, o ancora la tristezza? Se riusciamo ad ascoltarle e accoglierle, tutte queste emozioni hanno funzioni importantissime e sono messaggi utili da esplorare. La paura ci aiuta a pianificare, prevedere, arginare eventuali possibili rischi, la rabbia può aiutarci a capire che quella situazione o relazione non va bene per noi e al tempo stesso darci quella forza e quell’energia che ci serve per reagire. E infine verbalizzare la tristezza, riuscire a comunicare quando siamo tristi potrebbe permetterci di ricevere dagli altri calore, affetto o magari un abbraccio. 

E infine perché è necessario prenderci cura delle nostre emozioni? Se è vero come abbiamo detto che rispondono a uno scopo, esse generano un comportamento. Quando l’emozione non è adeguatamente ascoltata, compresa ed elaborata genera un comportamento disfunzionale. 

In sistemi complessi come i luoghi di lavoro, la capacità dimodificare il proprio sguardo rispetto alle relazioni interpersonali in favore di una maggiore flessibilità personale e rispetto della singolarità dell’altro può contribuire a creare un’ecologia dei rapporti e a spianare la strada a una comunicazione più fluida e meno “intasata” di preconcetti, giudizi, autoreferenzialità. È quindi di fondamentale importanza creare contesti formativi nei quali allenarsi, nella forma protetta dell’aula, a separare l’esperienza che genera un movimento emotivo dalla conseguente risposta/azione che ciascuno esprime. 

Sento dunque sono.

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